Da quando la crisi finanziaria americana si è trasformata in crisi creditizia e infine in crisi del debito europeo, l’intera Unione Europea ha affrontato una pesante recessione economica che si è dopo poco tradotta – prevedibilmente – in crisi occupazionale. La disoccupazione è aumentata quasi ovunque e ha raggiunto livelli preoccupanti nel sud Europa, a causa delle peggiori condizioni di partenza. Solo di recente però si è iniziato a parlare di una nuova emergenza, la disoccupazione giovanile. Complici allarmanti dati diffusi dagli istituti statistici, oltre all’oggettiva difficoltà di trovare lavoro, i governi europei, i partiti politici, la stessa Unione si sono messi in moto per affrontare la disoccupazione dei più giovani.
I dati non sono, in effetti, incoraggianti. In Spagna la disoccupazione giovanile tocca uno strabiliante 50%, mentre l’Italia si ferma a circa il 38%. Significa comunque quasi un giovane su due disoccupato. Numeri da rivolta sociale, che però non avviene. Come mai? Anzitutto perché questi dati si riferiscono alla percentuale di non impiegati tra i 15 e i 24 anni, una fascia d’età in cui la disoccupazione è di frequente dovuta a condizioni diverse dalla mancanza di lavoro: allo studio, per esempio, o alle attività formative. Uno studente universitario rientra nel numero complessivo dei giovani non occupati, ma verosimilmente non sta ancora ricercando un impiego: è probabile che si accontenti di qualche lavoretto serale o stagionale. Le difficoltà nel calcolare un tasso di disoccupazione significativo per questa fascia d’età sono ammesse dallo stesso Eurostat, che integra il dato della disoccupazione giovanile mettendolo in rapporto alla popolazione totale (il risultato così ottenuto è definito youth unemployment ratio). Così facendo, è possibile avere un quadro meno drammatico, per cui il rapporto è basso, essendo gran parte dei giovani impegnati in attività diverse dalla ricerca di un impiego. In buona approssimazione: rispetto all’intero mercato del lavoro, il numero di giovani non occupato è sicuramente aumentato in termini assoluti e a causa della crisi, ma, come conferma l’Eurostat, i giovani costituiscono ancora una percentuale limitata dei disoccupati totali, persino nei Paesi dell’Europa meridionale.
L’opinione pubblica e i giornali si sono molto lasciati impressionare dai numeri della disoccupazione giovanile – che comunque erano alti anche prima della crisi – spingendo la politica a intervenire per porre rimedio a quella che è stata definita come una emergenza europea. Questo è in ogni caso stato un bene, visto che la categoria dei giovani è in generale meno protetta delle altre nel mondo del lavoro. Tra le proposte partorite, quella che sicuramente ha suscitato più consenso è il programma Youth Guarantee, garanzia per i giovani. La garanzia è stata inizialmente proposta dal Partito Socialista Europeo e non è un vero e proprio intervento dell’Unione, quanto piuttosto una serie di linee guida per gli Stati che aderiscono al progetto, con le quali affrontare e limitare la disoccupazione giovanile. Lo schema è semplice e prevede, per i giovani sotto i 25 anni, una serie di interventi così da contenere a 4 mesi massimo il periodo di disoccupazione tra l’ultimo impiego o l’ultima attività formativa e quella seguente. A dover permettere questo rapido inserimento nel mondo lavorativo o in un’attività formativa realmente qualificante dovrebbero essere i centri per l’impiego, secondo l’esperienza maturata dove simili schemi sono stati messi in pratica, cioè in Finlandia, Austria e Lussemburgo.
Di misure per i giovani si è parlato durante il vertice del 14 giugno a Roma tra i Ministri del Lavoro e dell’Economia di Italia, Francia, Germania e Spagna, concordando sulla necessità di programmare un intervento durante il Consiglio Europeo di fine giugno. Enrico Letta ha particolarmente spinto perché l’UE intervenisse sul tema, consapevole della difficile situazione occupazionale in Italia. Come risultato, il Consiglio ha deciso di destinare6 miliardi di euro al finanziamento della garanzia per i giovani, con soddisfazione più o meno di tutti. Lo stanziamento però non è così considerevole se si considera che andrà spalmato su 6 anni e 28 Paesi membri. Siccome inoltre la Youth Guarantee si fonda sul funzionamento dei centri per l’impiego, è chiaro che dove questi centri sono meglio gestiti, come nel nord Europa, la garanzia sortirà un effetto maggiore.
Ci sono poi altri dubbi sulla reale effettività di questo programma: l’OIL, Organizzazione Internazionale del Lavoro, ha recentemente pubblicato un saggio sulla Youth Guarantee, specificando che esiste una limitata esperienza sui risultati del programma, quindi è necessaria ulteriore ricerca per capire quale sia l’impatto reale. Il saggio termina suggerendo che la garanzia per i giovani possa contribuire a limitare i danni della disoccupazione nel breve periodo, mentre nel medio – lungo termine sono necessariepolitiche strutturali.
Colpisce infine una frase, del documento prodotto dal Partito Socialista Europeo per presentare il progetto di Youth Guarantee: una precondizione perché questo tipo di schemi possa funzionare, soprattutto nelle aree a più elevata disoccupazione, è la creazione di nuovi e degni posti di lavoro per uomini e donne. In buona sostanza, si dice che per dare lavoro ai giovani è necessario che venga creato nuovo lavoro. Una tautologia che ci ricorda come il problema sia sempre lo stesso: finché i fatturati delle aziende rimangono declinanti, le stesse aziende saranno poco propense ad assumere nuovo personale, e persino a rimpiazzare quello vecchio. Solo un po’ di crescita economica può cambiare questa equazione: tutte le misure prese nel frattempo servono a mantenere il tema centrale, a fornire un minimo di sollievo nell’immediato, in definitiva, a prendere tempo.
Andrea Sorbello
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